26.9.10

Foto di famiglia_6

I due responsabili della Libreria Tau erano strani individui di età e sesso indefinibili. Intuivo dal loro cognome identico, Gibigiana, che dovevano essere fratelli, e dai loro nomi, ormai dimenticati, che si trattava di un uomo e di una donna. Erano giovani, credo, e si somigliavano in modo inquietante, come due gemelli siamesi separati con successo. Distinguerli era molto difficile. Avevano la stessa voce prepuberale, gli stessi capelli crespi, gli occhialini tondi, il medesimo pallore insano e grossi Tau di legno appesi al collo (che, intuivo, erano insieme un simbolo religioso e un gadget della Tau Edizioni che dava il nome al negozio). Parlavano sempre dei loro figli, dovevano averne una mezza dozzina ciascuno.
Durante quello che avrebbe dovuto essere l’incontro di presentazione, i due non mi avevano fatto domande. Si fidavano del lavoro svolto dall’agenzia, dicevano. Mi fissavano, disinteressati a me come io, del resto, lo ero a loro. Potevo gentilmente ricordargli il mio nome? Era questa la loro unica richiesta, e in seguito me l’avrebbero fatta non so quante volte. Non mi avevano presentato a nessuno. Nemmeno un giro illustrativo del negozio. Niente.
Forse intuivano che non sarei durato a lungo, e non sprecavano energie. Nel breve periodo in cui ho lavorato in quel posto non ci siamo mai detti altro.
I Gibigiana mi trattavano come un quindicenne e con me usavano un tono indulgente, da fratelli maggiori, tipico di chi ha trascorso troppo tempo all’oratorio. Quella dei due che aveva un nome da donna, ma che a tutti gli effetti poteva essere un uomo, era installata alla cassa con la solennità di Elisabetta I sul trono. (La cassa, lì dentro, era il posto più ambito.) Quello che doveva essere il maschio, ma che aveva i tratti decisamente più femminei, intratteneva i rapporti col pubblico, sapeva tutto di ogni oggetto in vendita e rispondeva a qualsiasi richieste di preti, suore e fondamentalisti religiosi che affollavano senza sosta la libreria.
Fratello e sorella parlavano in stereo, con un entusiasmo che faceva venire i brividi, si lanciavano esclamazioni ridicole da ogni angolo del negozio (Santa paletta! Porca polenta! Cicciapuzzola!) e ripetevano all’infinito stupidi giochi di parole che li facevano piangere dal ridere. Ma ridevano solo loro. A me sembrava di essere tornato all’asilo – che non ho mai frequentato.

19.9.10

Che cosa fa un redattore_5

Non avrei mai pensato di poterlo dire, ma Il Cane zoppo di Tom sta diventando più coinvolgente del previsto. Non saprei, forse è cambiato qualcosa nel romanzo o forse in me, nel mio modo di leggerlo. Probabilmente la mia prevenzione iniziale è sparita, o forse il libro è migliorato rispetto all’inizio, non lo so, e francamente non mi interessa. Posso solo dire che da un certo punto in poi ho iniziato a leggerlo con interesse, e la lettura si è fatta così piacevole che mi sono completamente dimenticato di sottolineare le parolacce e le parti da tagliare. Per esempio, non mi sono accorto di una scena in cui il padre, come sempre ubriaco, palpeggia le tette a una cameriera nello sgabuzzino di un pub*, così come non ho visto un insidioso vaffanculo stampato tra la fine di una pagina e l’inizio di quella successiva e, cosa ancor più grave, non ho evidenziato una parte molto divertente, ma ovviamente da tagliare, in cui due tizi ubriachi raccontano al padre che quella notte andranno a prendere a bastonate uno che gli ha fatto uno sgarro, e gli chiedono se vuole unirsi al gruppo. Ma lui è così bevuto che si accascia, addormentato, sul bancone del bar.
Se ci lasciamo sfuggire una cosa del genere, quelli del Movimento Genitori Attenti ci sistemano per sempre.
Devo riconoscere che l’autore scrive meglio quando lascia perdere psicologismi da manuale e scene melense e racconta semplicemente la vita di Tom a casa e a scuola, quando parla dei suoi problemi con i compagni di classe, tutti stronzi, della sua amicizia con quel cane rognoso e zoppo, l’unico che gli faccia un po’ di compagnia in quella periferia operaia sull’orlo del collasso, dove i bambini vivono abbandonati a se stessi, isolando lui, Tom, ai margini di qualsiasi cosa.
Il libro mi piace al punto che sono andato a controllare quante pagine mancano alla fine. Per fortuna non sono neanche a metà.
Così ho deciso di fare una cosa: siccome devo consegnare l’elenco all’editor entro lunedì, finirò il libro leggendolo macchinalmente, riga per riga, tipo scanner. Questo basterà a trovare tutte le scemenze da eliminare. Ovviamente non capirò niente di quello che c’è scritto, ma è proprio quello che voglio. Così, una volta che mi sarò liberato di questo lavoro, potrò riprendere il romanzo e leggermelo con calma, senza più preoccuparmi di parolacce, scabrosità da oratorio, oscenità ridicole e soprattutto di quel Movimento dei genitori del cazzo.

* Scena perniciosissima per la virtù dei nostri giovani lettori.

10.9.10

Foto di famiglia_5

I gemelli mi fissano subdoli dall’angolo dello specchio dove ho infilato la foto. L’ho messa lì per evitare di perderla un’altra volta, ma dovrei nasconderla in qualche altro posto più sicuro, anche perché, attaccata in quel modo, la foto mi sembra un santino. E a me i santini non piacciono per niente. Anzi li odio. Il motivo è presto detto, perché mi ricordano la mia prima esperienza di lavoro. Uno dei ricordi peggiori della mia vita.
Su un giornale avevo trovato un annuncio che diceva testualmente: “agenzia di lavoro temporaneo ricerca un addetto alle vendite laureato in materie umanistiche per un’importante libreria”. Io mi ero laureato da un paio di mesi in lettere moderne, mi piacevano le librerie e soprattutto i libri: quell’annuncio sembrava scritto per me. Quindi avevo mandato il mio curriculum via fax all’agenzia. Un paio d’ore più tardi mi avevano telefonato per fissare un colloquio. La loro velocità mi faceva sperare bene, era un altro segno che quel lavoro mi aspettava.
Il giorno successivo ero andato negli uffici dell’agenzia, dove avevo parlato con una ragazza simpatica che dopo una serie di domande sulle mie esperienze precedenti (lavori saltuari che avevo fatto per pagarmi l’università), fissando il mio magro curriculum, aveva voluto chiarire una cosa: stavano facendo quella selezione su incarico di una libreria religiosa.
Per me era un problema?
Avevo immediatamente risposto di no. Ma non era vero. Fin da bambino non mi era mai importato niente della religione, l’avevo sempre considerata con sospetto, diffidenza, per non dire di peggio. E a dirla tutta, per me una libreria religiosa non era nemmeno una vera libreria. Ma ovviamente ero stato zitto, sperando che la ragazza si bevesse la mia risposta. Intanto mi dicevo che avrei avuto comunque a che fare con dei libri, in gran parte religiosi, va bene, ma pur sempre libri.
E poi avevo risposto all’annuncio perché avevo bisogno di un lavoro, quindi non mi sembrava il caso di sottilizzare.
Non solo la ragazza aveva creduto alla mia risposta ma diceva che ero PERFETTO per quel posto. (Ma che razza di impressione avevo fatto?) Poi aveva specificato che non si trattava di una libreria religiosa qualsiasi - adesso poteva rivelarlo - ma della Libreria Tau, la più importante della città. (E lo aveva detto abbassando la voce, come se mi stesse confidando un segreto pericoloso.)
La conoscevo?
Sì, di vista.
E per convincermi che una libreria religiosa era una libreria come le altre, e che in fondo stavo facendo la scelta giusta, mi ripetevo che comunque si trattava solo di un lavoro temporaneo. Sei mesi, poi avrei cambiato aria.
Ma prima la ragazza doveva chiarire un altro dettaglio (ancora?): per i primi mesi, in pratica, non avrei lavorato nella libreria vera e propria ma in un distaccamento del negozio, distante pochi metri, specializzato in oggettistica sacra.
Per me era un problema?
No, certo che no, niente affatto.
Inutile dire che quel lavoro mi attirava sempre meno.
Comunque non si era capito, anzi, dovevo essere sembrato proprio convincente, perché il giorno dopo la ragazza mi aveva telefonato confermandomi che il posto era mio, se per me andava bene.
Ovvio che mi andava bene.
Diceva di presentarmi alla Libreria Tau martedì alle 9 in punto. Per sicurezza avevo evidenziato la data sul calendario: martedì 11 settembre 2001.

4.9.10

La stagista_21

Come ho già detto, Gladia passa molto tempo al cellulare a parlare con gente misteriosa (un fidanzato?) che la chiama a tutte le ore. Quando non è al telefono la si può trovare a fumare nel cortile*, magari insieme a un’amica che ha scelto di sprecare con lei i suoi rari minuti di pausa.
Ma Gladia staziona spesso anche alla macchinetta del caffè del piano superiore, che è più fornita e, soprattutto, permette di incontrare qualche dirigente in pausa. Proprio lì mi è capitato di vederla, un paio di volte, in atteggiamenti non dico sospetti, ma sicuramente lontani dal contegno da novizia che di solito esibisce con tutti noi. Un giorno, per esempio, rideva in modo incontenibile insieme a un tizio dell’area marketing, un bell’uomo alto e robusto, con la faccia da antico romano (non so se avete presente Caracalla) e l’aria sensuale… Lei rideva, dicevo, mentre il tizio, appoggiandosi con una mano alla macchina del caffè, si sporgeva in maniera preoccupante sopra di lei. La sua cravatta regimental sventagliava allegramente sulla scollatura generosa per quanto inutile della stagista. Già, perché i golfini tetri che lei sfoggiava i primi giorni (in tutte le possibili nuances di grigio e marrone), hanno ormai lasciato il posto a abitini leggeri, scollati appunto, a tubini aderenti, gonne corte, quasi mini, che mettono bene in mostra il suo corpo tozzo (eppure capace di riscaldare i maschi circolanti alla Giacobino).
Comunque, quando l’ho beccata con quello del marketing ho finto di non vedere che erano a un passo dal copulare lì, su due piedi, seminascosti dal distributore automatico. Anche se la loro posizione – lui in piedi e lei seduta con la faccia all’altezza del suo inguine - suggeriva piuttosto una fellatio spiccia… Ma non divaghiamo. Quando li ho visti così presi in quel viluppo di chiacchiere e risate, dicevo, ho infilato la mia chiavetta nella macchina, ho composto il numero 13, aspettato che la spirale ruotasse facendo precipitare la bottiglietta nello sportello, quindi ho prelevato la mia acqua naturale senza fare rumore, senza dire una parola, e me ne sono andato. Mentre loro parlavano così sottovoce che non si sentiva niente. Immagino che Gladia, nascosta com’era dalle cosce muscolose dell’antico romano, non si sia nemmeno accorta del mio passaggio.

*Non mi aspettavo che Gladia fumasse, o meglio, mi ha stupito che non fumi di nascosto, chiusa in bagno, come fanno molti altri redattori che poi raccontano a tutti di aver abbandonato quel vizio da anni.
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