28.3.10

Che cosa fa un redattore_2

Mi rigiro tra le mani Il cane zoppo di Tom. Fisso gli occhi acquosi dell’animale che mi guardano dalla copertina. Quando penso che dovrò leggere queste trecento pagine in due giorni mi viene la nausea. Non riesco neanche a sfogliarle. Se l’editor mi avesse chiesto semplicemente un parere sul romanzo (cosa che non fa mai, perché l’unico parere che ascolta è il suo), potrei benissimo saltare righe, pagine intere, e alla fine ne leggerei sì e no la metà. Ma per trovare tutte le parti da censurare non posso permettermi distrazioni, potrebbe essere pericoloso.
Lo so per esperienza, perché questi lavori li rifilano sempre a me.
Quando ero solo uno stagista, l’editor mi aveva spiegato che grazie alle letture critiche – lui le chiama così – avrei imparato davvero molto. E io gli avevo creduto. Ma non ci è voluto molto per capire che erano tutte balle.
Comunque ho dovuto continuare a stendere questi mortali elenchi di parolacce perché ero pur sempre l’ultimo arrivato, il più giovane della redazione*. Una volta ci ho provato a rifiutare, ho chiesto all’editor se non poteva dare la lettura a qualcun altro, e lui mi ha guardato con tanto d’occhi, diceva ma no, ma come, che insomma sarebbe stato un peccato, che avevo proprio del talento... Capirai.
Faceva tante storie solo perché non sapeva a chi altro appioppare il lavoro.
Certo, poteva sempre attingere alla pletora di neolaureati in attesa di poter lavorare in una casa editrice. Ma a quelli forse doveva promettere qualcosa. Magari li doveva anche pagare. Io invece potevo farlo gratis**, e più in fretta.
Non poteva nemmeno chiedere il favore a uno dei redattori assunti (che mediamente non hanno troppo da fare, ma non sono nemmeno degli stacanovisti, anche se ci tengono a far pesare a noi “giovani” tutta la loro esperienza, le loro grandi capacità continuamente mortificate dal lavoro sfiancante e sottopagato cui sono costretti alla Giacobino). Gli assunti, sospetto, lo avrebbero mandato letteralmente a cagare.
Da parte mia, quindi, era inutile fare tanto il difficile. Potevo mettere da parte, per ora (?), l’aspirazione a qualcosa di meglio e rassegnarmi all’ennesima lettura critica – questa enorme rottura di palle che solo un giovane redattore fantasma potrebbe accettare.


* Per gli editor e i redattori assunti noi collaboratori a progetto restiamo sempre dei ragazzi. Non importa quanti anni di attività tu abbia alle spalle: in quanto collaboratore, l’Azienda ti considererà sempre un giovane, cioè un eterno principiante. E c’è anche qualche assunto che, credendo forse di essere simpatico, si rivolge a noi chiamandoci bambini. Approfitto di questa nota per ricordare che ho trentacinque anni suonati.
**Prima regola dell’editoria: non c’è tempo. Seconda regola: non ci sono i soldi. Mai.

21.3.10

Foto di famiglia_2

La foto è piccola, quadrata, e come tutte quelle della mia infanzia ha i colori troppo carichi, forse per un difetto della pellicola oppure, sospetto io, per colpa di una macchina fotografica scadente – cosa che non mi stupisce, visto che all’epoca in famiglia non giravano certo molti soldi.
Nella foto ci siamo io e Emanuele, il mio gemello, seduti sopra una coperta in mezzo a un prato. Guardandola, Emanuele ha detto che potevamo avere al massimo un anno quando è stata scattata. Io non ne ho idea, non so dare un’età agli adulti, figuriamoci ai bambini. Ma se lui ha ragione l’immagine potrebbe risalire alla primavera del 1975 (noi siamo nati nell’estate del 1974), perché il prato è tutto infiorato di margherite. Il giardino è senza dubbio quello dei miei genitori, in un angolo si vede un pino minuscolo, che col tempo sarebbe cresciuto moltissimo e che è stato tagliato già da vent’anni, perché minacciava di abbattersi sul tetto di casa.
La coperta patchwork stesa sull’erba me la ricordo bene, l’aveva fatta a mano mia madre, che dopo averla usata per i giochi di tutti i suoi figli l’ha arrotolata come un serpente e stesa davanti alla finestra della cucina, dove ancora oggi, credo, serve a fermare gli spifferi d’aria.
Emanuele e io siamo infilati in due tutine di lana bianche e azzurre, anche quelle opera di madre. Entrambi, sui bavaglini, abbiamo un orsetto che cammina su due zampe. A parte qualche dettaglio insignificante, siamo identici. Direi anche che siamo belli, e mia madre – mi sembra di sentirla – aggiungerebbe che sembriamo il ritratto della salute. Il bambino a sinistra è di profilo, ha gli occhi socchiusi e l’aria trasognata di uno che ha appena mangiato. Indica qualcosa con una mano, lontano, nel cielo, come se fosse impegnato in una discussione. (Ma i bambini di un anno parlano?) L’altro, che gli sta vicino come il suo riflesso, lo ignora e fissa l’obiettivo con una faccia scocciata. Secondo Emanuele quello a sinistra sono io. «È impossibile sbagliarsi» dice, «non vedi che ha la testa un po’ a uovo come la tua, i tuoi occhi e la tua espressione?» Forse ha proprio ragione, anche a me sembra di riconoscere qualcosa di lui nel bambino seduto a destra. Ma un attimo dopo i gemelli tornano a confondersi, a somigliarsi come due sconosciuti che se ne fregano dei miei dubbi. E io devo fare uno sforzo per convincermi che uno di quei corpi così piccoli, così lontani, sia stato davvero il mio.

14.3.10

La stagista_15

Comodamente incastrato fra l’armadio e la stampante, posso origliare il resto del dialogo tra l’editor e Gladia. Lui parla con un filo di voce, lei lo ascolta in silenzio, ride, mugugna suoni di assenso.
«De Pasquale…» che è l’editor della Studia & Labora «…non ha problemi a farle proseguire lo stage in un’altra redazione. Anzi, pensa che per lei sarebbe molto più utile, perché così avrebbe modo di partecipare alla lavorazione di opere più complesse e importanti…»
Mi dà fastidio questo suo tono ossequioso, lo stesso che adotta quando parla con qualche Autore importante.
«…Capisce benissimo il suo senso di noia e di frustrazione…»
Frustrazione?
«…Del resto è normale che lei si senta poco valorizzata dai lavori che lui può offrirle…»
Quindi Gladia si era lamentata perché il posto alla Studia & Labora non era di suo gradimento, anzi, perché non la valorizzava abbastanza.
«…Diciamolo pure, una persona con la sua preparazione umanistica, il suo eccellente curriculum, è davvero sprecata da loro…»
Sì, è una perdita per tutta l’umanità.
«…Così ha accettato volentieri la mia proposta di farla subito trasferire nella nostra redazione…»
Nella nostra redazione?
No, non può essere vero.
Cazzo.
«…Altrimenti, mi capisce, c’è il rischio che il suo stage risulti poco proficuo, se non addirittura inutile…»
Darei un pugno alla stampante, anzi, la lancerei addosso all’editor per ringraziarlo di questa bellissima pensata. Adesso capisco tutto, ecco di cosa discutevano quando li vedevo bisbigliare nei corridoi. E io che credevo parlassero del solito master di Umberto Eco.
«…Sempre che a lei vada bene, ovviamente…»
Ma perché non dovrebbe andarle bene? Non era questo che voleva da quando è arrivata qui? Mi alzo in punta di piedi e vedo che anche Gladia, finalmente, sta per dire qualcosa.
«Sono veramente onorata della sua proposta. Sarò lieta di lavorare con voi, perché qui avrò sicuramente modo di imparare molto».
Onorata? Lieta? Ma come parla? Con la sua finta modestia non inganna nessuno, se non l’editor.
Che bastarda leccaculo.
«…Mi hanno raccontato grandi cose della sua redazione…».
Certo, avrà fatto il terzo grado a tutti per raccogliere informazioni, per capire qual era il posto migliore dove piazzarsi, dopo il lunghissimo mese di gavetta passato alla Studia & Labora a occuparsi di micragnosi libri per istituti professionali. E adesso eccola qui, rinata, gongolante, lieta di accettare l’offerta dell’editor che la guarda intenerito, con due occhioni lucidi, neanche fosse sua figlia.

7.3.10

La stagista_14

Credevo di essere rimasto da solo in redazione, fino a quando non ho sentito una risata che veniva dall’ufficio dell’editor. Siccome era venerdì, ho pensato che fosse in compagnia della sua insegnante di tedesco – ogni tanto la fa venire in ufficio, quando non c’è più nessuno, per fare un’ora di conversazione. Quindi non mi sono meravigliato di sentirlo parlare a quell’ora, le sei, che non è certo un orario strano, se non fosse che il venerdì tutti i dipendenti della Giacobino scappano (letteralmente) già alle quattro e mezzo. Tranne alcuni, instancabili, che si fermano fino alle cinque. Dopo, rimane solo qualche collaboratore disperso nelle redazioni buie e deserte.
Quelli che sentivo non erano i soliti brandelli di frasi in tedesco ma pezzetti di qualcos’altro, di un allegro discorso tra l’editor e una donna, anzi, a giudicare dalla voce, una ragazza. Siccome volevo scoprire chi fosse, ho lanciato la stampa di una pagina qualunque e sono andato a prenderla. La stampante è appoggiata agli armadi che circondano l’ufficio dell’editor e da lì potevo facilmente dare un’occhiata. Così ho fatto. Mentre sfilavo il foglio dalla macchina mi sono alzato in punta di piedi e ho visto la testa brizzolata dell’editor che si muoveva in compagnia di un’altra testa, ovviamente femminile, ma molto più giovane del previsto. La testa dell’ultima persona che in quel momento mi sarei aspettato di trovare in sua compagnia. Quella era Gladia, la stagista.
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