26.10.09

La stagista_7

E così Gladia mi ha inchiodato alla porta del bagno con quei suoi occhietti appuntiti, e io non ho potuto fare altro che seguire lei e Laura alla macchina del caffè. La sua stretta di mano mi ha subito dato fastidio. Ma la parola stretta è la meno adatta a definire il movimento con cui ha depositato la sua mano nel mio palmo, o meglio, l’ha lasciata cadere come un corpo morto, disossato. Mano fredda a parte, dai convenevoli d’obbligo è emersa una cosa interessante, cioè che Gladia in realtà si chiama Addolorata (mi chiedo, come si fa a dare un nome del genere a una figlia?), ma che lei preferisce usare il nome della nonna materna, Gladia appunto, perché le sembra meno impegnativo. E se lo dice lei, io non aggiungo altro.
Nei cinque, lunghi minuti che sono seguiti, mentre sorseggiavamo i nostri caffè – io cercando di velocizzare il più possibile la faccenda, a costo di ustionarmi l’esofago, Laura, non so perché, sinceramente interessata al racconto di Gladia - oltre a spiegare l’origine del suo strano nome, la ragazza non ha aggiunto granché. Non ho neanche capito quanti anni ha. Forse non l’ha nemmeno detto. In ogni caso, età a parte, se all’inizio, quando la vedevo, ero solo un po’ prevenuto, diciamo pure ostile, nei suoi confronti, cinque minuti dopo aver fatto la sua conoscenza la trovavo già profondamente antipatica. Insopportabile. Non so spiegare perché, forse era colpa della sua vocina acuta, sgradevole (come il rumore di un chiodo grattato su una lavagna), o di quel suo modo lagnoso di parlare, come se dovesse scoppiare a piangere da un momento all’altro. (Nanda aveva ragione.) O forse perché adesso osservavo da vicino il suo aspetto, diciamo dimesso, i suoi capelli raccolti in qualche modo con l’elastico e neanche tanto puliti, il suo golfino triste, vedovile, con un buco, anzi due, in un polso, la sua pancia rotonda, il doppio mento, la faccia grigia, slavata, senza traccia di trucco, la pelle inodore (deve essere di quelle che trovano inconcepibile, o forse immorale, l’idea di mettersi un profumo)… Anzi no, mi sbagliavo, perché a essere sinceri emanava un certo effluvio di chiuso, di sudore vecchio e di minestra della sera prima… Insomma, la stagista non mi piaceva per niente, e quella sua aria da giovane secchiona già avvizzita, se devo dirla tutta, mi sembrava fasulla, costruita ad arte, solo per farci credere che lei aveva cose troppo importanti a cui pensare per riuscire anche a prendersi cura di sé.

14.10.09

Vita da redattore_4

Se è difficile spiegare che cosa fa un redattore editoriale, le cose possono mettersi anche peggio quando qualcuno lo capisce e trova la cosa interessante. Faccio un solo esempio. Qualche anno fa, siccome ero molto più ingenuo di oggi, se una persona si informava sul mio lavoro io ne parlavo apertamente. Così, in palestra – l’unico posto in cui mi capita, raramente, di socializzare con qualcuno – tutti quelli che miracolosamente capivano che lavoro faccio iniziavano a trattarmi in modo strano, ridicolo, da intellettuale (mentre in realtà mi occupo di bassa manovalanza culturale): mi chiedevano opinioni autorevoli su qualunque questione, si sforzavano di parlare bene quando si rivolgevano a me, oppure esigevano consigli sul libro giusto da leggere o da regalare alla suocera, alla collega in maternità o al fidanzato della sorella, convinti che io conoscessi a menadito le migliaia di titoli sfornati ogni anno dalle case editrici. Per non parlare dei talenti nascosti che venivano allo scoperto parlando con me. Ricordo ancora il caso di un tizio, peraltro insospettabile, un uomo di mezza età che nella vita fa il vigile urbano, il quale mi aveva avvicinato chiedendomi gentilmente di leggere le sue poesie. Inutile dirgli che la mia casa editrice non pubblica né romanzi né poesie di esordienti. Forse, provavo a spiegargli, con un bel manuale di filosofia avrebbe avuto almeno una possibilità – ma sapevo bene che non era vero neanche quello, perché prima di lui venivano mariti, mogli, amanti, parenti, protetti, assistenti, portaborse, amici e conoscenti vari dei nostri autori di punta: bastava una loro telefonata e anche il testo più inutile e informe sarebbe stato dato alle stampe. Ma evidentemente la cosa più inutile era sprecare fiato con lui, perché il giorno dopo mi aspettava nel parcheggio della palestra e, prima che potessi dire qualsiasi cosa, mi aveva piazzato in mano una risma di fogli che si era messo a illustrarmi appassionatamente: era la raccolta di tutte le sue composizioni migliori, l’opera della sua vita, il suo Canzoniere. Centinaia di fotocopie di poesie battute a macchina o scritte a mano, ognuna con la data, l’ora, il luogo, l’occasione in cui l’aveva composta e l’elenco dei premi ricevuti. Lì 16 settembre 1989, ore 17:15, lungomare di Cogoleto… 1° novembre 2005, al ritorno da una fredda passeggiata… Riconoscimento ufficiale alla Festa Nazionale degli Alpini… Primo Concorso Poetico del Circolo Canottieri… Pubblicata su «L’urna», trimestrale dell’Associazione Italiana Onoranze Funebri. E così via, all’infinito. Non sapevo cosa dire e non me la sentivo di restituirgli il malloppo. Anche per una questione di gentilezza. Così mi ero portato a casa l’Opera e non sapendo cosa farne l’avevo infilata nel cassetto di un mobile abbandonato in garage. E lì è rimasta, senza che mi sia mai deciso a leggerla o a buttarla via.
Avevo preferito iscrivermi in un’altra palestra, dove non mi conosceva nessuno.

9.10.09

La stagista_6

Laura è un’altra redattrice a progetto che occupa la scrivania di fronte alla mia, o meglio, è la mia sposa d’ufficio – come si definisce da quando ha trovato quest’espressione in un articolo apparso sul giornale gratuito che spacciano in metropolitana, di cui è un’avida lettrice. Non solo lei si è accorta della nuova stagista, ma ha anche cercato di mostrarsi simpatica con lei. Ho assistito con apprensione crescente alle sue manovre di avvicinamento alla sconosciuta. Le vedevo parlare, là in mezzo alle scrivanie vuote. Laura in piedi accanto al ficus secco, Gladia seduta che la guardava con un faccino smorto, incredula che qualcuno le si fosse avvicinato. Comunque non ho avuto la minima tentazione di raggiungerle.
Riuscivo solo a pensare che Laura non si rendeva conto di quello che stava facendo. Non capiva che così avrebbe scatenato una serie incontrollabile di reazioni a catena? Evidentemente no, perché andava sempre a salutarla, si fermava a chiacchierare con lei e la invitava a prendere il caffè. Forse la trovava simpatica. Di certo, vista così, Gladia non sembrava pericolosa come diceva Nanda.
Fosse per me non avrei certo cambiato atteggiamento, ma qualche giorno fa è successo quello che temevo, perché Laura ha pensato bene di coinvolgermi nei loro incontri. Certo, avrei potuto dirle che non mi interessava fare nuove conoscenze – lei del resto non è la mia sposa d’ufficio per niente, lo sa bene che sono poco socievole. Peccato però che l’invito me l’abbia fatto cogliendomi alla sprovvista mentre uscivo dal bagno, proprio davanti agli occhi di Gladia, che mi ha bloccato puntandomi addosso due occhi appuntiti come spilli. Ero in trappola. Cos’altro potevo fare se non presentarmi alla ragazza e unirmi spontaneamente alle loro chiacchiere? Lascio immaginare la mia voglia di accompagnarle alla macchina del caffè. Per fortuna non potevo vedere l’espressione della mia faccia.

5.10.09

Vita da redattore_3

Non lo sa nessuno cos’è un redattore editoriale. O almeno, nessuno che conosca io. Prendiamo i miei genitori: loro non hanno mai capito veramente che lavoro faccio. Io ci ho provato a spiegarglielo e per aiutarli gli ho fatto vedere qualche bozza fitta di annotazioni, cancellature, frasi riscritte, correzioni, indicazioni per l’impaginatore. Pensavo che così si sarebbero finalmente chiariti le idee. Invece niente. Li vedevo sempre più perplessi, incerti, proprio come me, quando alle medie dicevo alla professoressa di matematica che avevo capito quello che aveva appena spiegato alla lavagna, anche se in realtà non avrei saputo ripeterne nemmeno una parola. Mamma e papà si rigiravano quei fogli tra le mani, leggevano i simboli e le mie scritte con fatica, come se provassero a decifrare una lingua morta.
L’ultima volta, però, mio padre aveva avuto una specie di illuminazione e a un certo punto aveva esclamato, deciso: «fai la correzione di bozze!». «Più o meno» gli avevo detto, semplificando fin troppo, perché correggere le bozze non è certo la stessa cosa. Ma non mi andava di spiegargli tutto da capo e di complicare inutilmente la faccenda.
Mia madre sembrava commossa.
Capivo che più di questo non avrei ottenuto e che mi dovevo accontentare. Da allora è passato qualche anno e loro non hanno più voluto chiarimenti. Ogni tanto si limitano gentilmente a chiedere «come va il lavoro?», e ogni volta io rispondo «bene, bene», senza aggiungere altro.
© 2009-2011 redattorefantasma

email

redattorefantasma@gmail.com

indice