27.6.10

La stagista_19

Gladia si atteggia come se lavorasse in questa redazione da una vita. Parla sempre in quel suo modo affettato, con un filo di voce sfinita, anche solo per rispondere al telefono. Alza la cornetta controvoglia, mai prima del terzo squillo, emettendo sbuffi che dicono chiaramente: “Chi osa disturbarmi ancora? Ho cose importantissime da fare, io”. Di solito è la ragazza della reception che le ha inoltrato una chiamata per sbaglio (infatti, chi dovrebbe telefonarle?), e lei riappende sibilando contro la stupidità di quella sottospecie di donna.
Sulla sua scrivania completamente sgombra Gladia ha solo il computer – nuovissimo, algido, sottile, quello che secondo lei non è un granché – e un ingombrante leggio di legno massello. L’oggetto deve esserselo portato da casa, oppure lo aveva richiesto all’editor di Studia & Labora, lamentando qualche disturbo alla vista o alla schiena, o solo perché al master di Umberto Eco tutti gli aspiranti redattori ne avevano uno. Comunque è la prima cosa che ha piazzato sulla scrivania quando si è trasferita da noi, e a tutti quelli che si fermano ad ammirarlo (mi domando perché) dice che a lei serve moltissimo per leggere.
Sul leggio c’è un volume aperto da due settimane alla stessa pagina, che lei non guarda mai.
Capita molto più spesso di vederla leggere il giornale, che spiana sulla scrivania senza troppi complimenti. (Finora lo avevo visto fare solo ai redattori assunti più anziani e sfacciati.)
Ma in questo preciso momento, mentre le rivolgo un accenno di sorriso puramente formale, così, tanto per sgranchirmi i muscoli facciali, sembra proprio che Gladia stia lavorando sul serio. Sta leggendo un mazzo di fogli che ha appena stampato. (Perché lei stampa qualsiasi cosa, anche le email, che evidentemente non può leggere a video come gli altri.) La sua posizione ricurva è la stessa che aveva la prima volta che l’ho vista, seduta tra scatoloni di libri per il macero nell’ufficio dismesso della Studia & Labora. Mentre lo penso, ho quasi nostalgia di quel giorno, quando non sapevo ancora niente di lei, anzi, ho nostalgia del giorno prima, quando Gladia per me non esisteva nemmeno.
A guardarla bene, però, mi rendo conto che ha qualcosa di strano. Mi sembra troppo ferma. Non muove mai la testa e neanche gli occhi. E io, incuriosito dalla sua fissità, non le tolgo i miei occhi di dosso: così mi accorgo che sta fissando lo stesso foglio da cinque minuti buoni. Va bene leggere lentamente e con attenzione, ma il tempo che sta dedicando a quella pagina è troppo anche per il lettore più meticoloso. Adesso si è mossa, cambia posizione. Si allunga mollemente e distende le sue gambe tozze sotto la scrivania. La postura di chi si gode il sole dorato del tramonto sul bordo di una piscina. Il suo grosso sedere è appoggiato per un pelo, sfidando ogni principio della fisica, sul margine estremo della sedia. È praticamente sdraiata, ma questo non le impedisce di continuare a leggere con grande interesse sempre la stessa pagina. O meglio, continua a fingere di farlo.

1.6.10

Foto di famiglia_4

«Non sai che dispiacere mi dai», dice mia madre ogni volta che le ricordo quanto ero brutto da adolescente. Lei proprio non si capacita, e io infierisco, le elenco dettagli come la mia semi-obesità, l’apparecchio ai denti, la faccia da scemo. Ma lei non mi ascolta, non ne vuole sentir parlare. Quando vede le foto dei suoi figli, ripete che sono TUTTE BELLISSIME e poi si commuove. Anche a me viene da piangere guardando le mie, ma per altri motivi.
Devo però ammettere che i suoi album documentano drammi fisici molto più gravi del mio. Faccio solo un esempio, quello della povera Cesira, una zia di mia madre che non solo beveva come una spugna, aveva la gotta e una grave forma di osteoporosi, ma a un certo punto della sua vita, non si è mai capito perché, si è trovata a combattere una strana lotta con la sua lingua, che si ingrossava di giorno in giorno, si allungava, si faceva sempre più spugnosa e rosea. Somigliava a quella di una mucca. Probabilmente il fenomeno era dovuto a qualche disfunzione endocrina allora sconosciuta, e il suo dottore, oltre a prescriverle qualche pastiglia, non sapeva cos’altro fare. Si poteva tentare qualche esame approfondito, suggeriva, ma non ci credeva davvero. Una cosa del genere non l’aveva mai vista. Cesira, invece, superato lo spavento aveva affrontato la faccenda con la praticità e il fatalismo dei contadini di una volta. Si era quasi abituata all’anomalia e cercava di arrangiarsi come poteva. Faticava un po’ a mangiare e a bere, quello sì, e aveva dovuto escogitare una complicata manovra per rimettere la lingua al suo posto, per non lasciarla penzolare in quel modo osceno. Ma non si lamentava. Era andata avanti così per quasi un anno. Passava le sue giornate chiusa in casa, e se proprio doveva uscire, anche solo per andare nell’orto, si fasciava la testa con uno straccio, una specie di turbante. Non voleva farsi vedere conciata così, soprattutto dalle vicine, che da quando avevano saputo della disgrazia venivano a suonare ogni giorno per sapere come stava. Una scusa per vederla e andare a raccontarlo a tutto il paese. Ma con loro ci parlava la madre che le liquidava con due parole, «sta guarendo».
Tutti i medici consultati nel corso dei mesi avevano solo aggiunto perplessità ai dubbi del primo. Le cure, neanche a dirlo, non servivano a niente. Ma poco importava, perché quando ormai tutti in famiglia ci avevano fatto l’abitudine, quando anche la zia Cesira aveva quasi smesso di pensarci, proprio allora, all’improvviso, era guarita. La Madonna aveva ascoltato le preghiere che sua madre le aveva rivolto, metodica, ostinata, chiedendo che il male sparisse. La lingua si era rimpicciolita da un giorno all’altro, come una pozzanghera al sole. Cesira era tornata quella di prima. Le comari non si erano più fatte vedere. Era guarita, certo, ma aveva iniziato a bere. Prima qualche bicchiere, tanto per tenersi su, diceva alla madre, ma da allora non aveva più smesso, non poteva più farne a meno (questo però non lo raccontava). Cesira ripeteva a tutti che stava bene. Ma nelle rare foto che la ritraggono compare sempre di sbieco, o per sbaglio, arretra nell’ombra o si nasconde in mezzo alla folla sorridente dei parenti, con lo sguardo offuscato, un bicchiere di vino in una mano e le dita dell’altra premute con forza a nascondere la distanza tra il mento e il naso.
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