30.4.10

Vita da redattore_7 (o La stagista_17?)

Gladia si è trasferita nella nostra redazione. Si è installata proprio nella scrivania di fronte alla mia. E come previsto lavorerà al terzo volume di storia dell’arte, quello sull’arte dal novecento a oggi, che avrei dovuto seguire io. La cosa mi dà doppiamente fastidio: primo, perché avrò sempre il suo muso da scema davanti agli occhi, secondo, perché l’arte contemporanea è l’unica che mi interessi davvero.
L’editor non poteva affidarle il secondo volume, quello dal rinascimento al manierismo, di cui non mi importa niente? Lo so, il rinascimento piace a tutti, anche a chi normalmente se ne frega della storia dell’arte.
Se le cocorite di mia madre potessero parlare direbbero sicuramente che il rinascimento piace tanto anche a loro.
E io invece non lo sopporto. Provate voi a fare un volume di cinquecento pagine piene di quella roba, e poi ne riparliamo. Se solo penso a Raffaello, a Leonardo o peggio ancora a quella sfilza di snervanti pittori manieristi, mi viene il vomito.
Ma tanto le cose stanno così. Ormai è deciso. L’editor continua a ripetere che Gladia è un’esperta d’arte contemporanea, e tutti gli credono. O meglio, nessuno lo ascolta. E io mi chiedo come faccia la ragazza ad avere tutta questa profonda conoscenza, visto che è laureata in filologia classica. Ha letto qualche libro? È andata a un paio di mostre? Capirai.
O forse ha anche una laurea in storia dell’arte di cui non so niente?
La faccenda comunque sembra interessare solo a me, perché gli altri redattori, quelli assunti, la guardano a malapena, con la loro solita indifferenza annoiata. Non sembrano sorpresi del suo arrivo, come se non si fossero nemmeno accorti della sua presenza. Come sanno fingere bene.
Ma in fondo cosa vuoi che gli importi di una nuova stagista. Ne avranno viste tante passare di qui, e molte altre ne vedranno ancora negli anni a venire. Perché il futuro senza assunzioni immaginato dalla dirigenza Giacobino è un vuoto pneumatico in cui ci sarà posto soltanto per loro, gli assunti, e per decine di stagisti al loro completo servizio.

17.4.10

Foto di famiglia_3

Mi chiedo come avrò fatto a rubare la foto dei gemelli a mia madre, che custodisce i suoi album come le reliquie di un santo. Se qualcuno li vuole vedere deve prima chiedere il permesso a lei, che li va a prelevare dal loro nascondiglio segreto e li porta, temporaneamente, in visione. Le foto per lei hanno un enorme valore. Lo dice sempre che non c’è niente di più bello che sfogliare quegli album e tornare con i ricordi indietro nel tempo. Mentre io, che non conosco certi slanci sentimentali, in quelle centinaia di pagine plastificate vedo solo immagini che sarebbe meglio occultare, perché danno un corpo troppo modesto a ricordi che la mia memoria, nel corso degli anni, si è sforzata inutilmente di abbellire. Quelle foto illustrano i membri della famiglia e tutte le loro mutazioni, raccolgono tutte le prove del matrimonio dei miei genitori, dei battesimi, delle comunioni, delle cresime dell’intero parentado, dei miei fratelli e ovviamente di noi due, i gemelli.
Curiosando tra le nostre foto è interessante notare come la bellezza che avevamo da piccoli sia andata progressivamente scomparendo. Prima abbiamo perso le rotondità infantili, poi ci siamo allungati. Emanuele si è smagrito da far paura, mentre io, come per bilanciare questa sua perdita di massa, nella pubertà ho messo su uno strato di ciccia a dir poco inquietante. Diciamo pure che ero grasso. Anzi, ero quello grasso, come ripetevano sempre i miei zii quando ci vedevano, tutti contenti perché così, forse, riuscivano a distinguerci.
E poi in famiglia si chiedono perché non mi stanno simpatici.
Non solo alle elementari sono arrivati per entrambi gli occhiali, ma per un certo periodo, su una lente a testa, abbiamo sfoggiato una toppa adesiva che secondo l’oculista doveva servire a correggere la vista. (Io non ci ho mai creduto.) Ci si può ammirare, in una foto del Natale ’83, mentre fissiamo mezzi orbati un grosso pacco che ci sta davanti. Sembriamo due scemi.
Per un certo periodo abbiamo sfoggiato i capelli a caschetto, un taglio ispirato a quello dell’adorabile bambino più piccolo (come si chiamava?) della Famiglia Bradford, un telefilm che circolava in quegli anni. A vederci adesso, però, ricordiamo più che altro una coppia di abat-jour da comodino.
Ai tempi delle scuole medie, comunque, i capelli li abbiamo tagliati a spazzola, perché li avevano tutti così. E su di me quel taglio marziale riusciva solo a farmi sembrare più grasso.
Ma siccome i nostri supplizi non erano finiti, ci hanno messo anche l’apparecchio per raddrizzare i denti. Emanuele almeno lo aveva mobile, quindi in pratica non lo metteva mai, lo nascondeva nell’armadietto del bagno o se lo infilava in tasca appena possibile, mentre il mio era fisso, letteralmente cementato sullo smalto dei denti, e me lo sono dovuto tenere fino a sedici anni.
Se qualcuno riuscisse a trovare le poche foto che non ho fatto sparire di quel periodo – il più oscuro della mia vita – mi potrebbe vedere mezzo obeso, con un’espressione idiota e due fili d’acciaio che mi saldano la bocca in un sorriso che somiglia a un grido disperato. Un ritratto che dovrebbe far riflettere i (miei) genitori sulla mania di scattare foto ai figli. Eppure mia madre è capace di commuoversi anche davanti a immagini del genere, e nel suo portafogli conserva il ritaglio di una foto – souvenir di qualche matrimonio o evento funebre della famiglia Sommaruga – in cui figuro io ridotto in quel modo.

4.4.10

La stagista_16

L’editor solleva la cornetta del telefono e dice a Gladia «aspetti che provo a chiamare Daniele, dovrebbe essere ancora qui». Mi sfilo dal nascondiglio e corro alla mia scrivania, appena in tempo per rispondere al terzo squillo. «Scusa Daniele, potresti venire un minuto da me?» Quando entro, Gladia non si volta nemmeno. Trova molto più agevole guardare l’editor, che guarda verso di me, che sto in piedi vicino alla scrivania. Lui non mi dice di accomodarmi, viene subito al dunque: «Volevo comunicarti che la dottoressa Ruotoli… vi conoscete già, vero?» e agita il braccio come un tergicristallo fra lei e me. Faccio un sorriso retorico a Gladia, lei non spreca neanche quella fatica. Forse ha ruotato di qualche millimetro il busto sulla sedia, ma non ci giurerei. Però quando l’editor l’ha presentata con quelle due parole, dottoressa Ruotoli, ho visto un sorriso compiaciuto che le increspava il profilo. «…La dottoressa, dicevo, inizierà a lavorare con noi a partire da lunedì.» Fingo di essere positivamente sorpreso dalla notizia. Lui ripete tutta la storia che avevo appena sentito e poi aggiunge: «Vorrei affidarle la redazione del terzo volume del manuale di storia dell’arte». Lascio credere che la notizia non mi dia per niente fastidio. «Siccome gli altri due volumi li stai seguendo tu, pensavo che potresti illustrarle come è strutturata l’opera, spiegarle il progetto grafico, le norme redazionali, insomma farle da tutor…» e qui le indirizza un sorriso smagliante che non gli ho mai visto addosso. Che sia davvero attratto dalla ragazza? Che abbia intenzione di portarsela a letto? L’immagine che mi balena davanti agli occhi è ripugnante. «Anche se credo che la dottoressa non avrà certo difficoltà, perché è una profonda conoscitrice della storia dell’arte.» Ma non era laureata in filologia classica? «E sono certo che la sua presenza sarà utile a tutta la nostra redazione.» La guarda intensamente, è rapito. «Anzi, per fortuna è arrivata lei, altrimenti non so proprio come avremmo fatto!». Grida l’ultima frase come uno slogan e poi la sfuma in una risata amara delle sue. Lei non so, mi dà sempre le spalle e resta immobile. Una statua. A questo punto mi chiedo che cosa si aspetti l’editor da me, dovrei forse ringraziare la stagista per tutto quello che imparerò da lei? Lo fisso senza unirmi alla sua risata e intanto mi domando che gusto ci trovi a trattarmi sempre come l’ultimo arrivato. Non a caso ha presentato me come Daniele, lei come la dottoressa Ruotoli. Dettagli da niente, certo, se non fosse che lui le parole le sa usare e scegliere con cura. Lo ha fatto perché gli piace farmi sentire come un eterno principiante, come se il mio già incerto futuro alla Giacobino Scuola dipendesse solo dalla sua magnanimità, non certo dai miei meriti. Il fatto che io lavori qui da quasi sette anni, per lui, è un semplice dettaglio. E siccome disprezza il proprio lavoro e ogni libro che esce da questa casa editrice (roba ignobile di cui si vergogna, dice), si sente libero di poter considerare i suoi collaboratori come dei mezzi idioti. Tutti tranne Gladia, a quanto pare.
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