17.4.10

Foto di famiglia_3

Mi chiedo come avrò fatto a rubare la foto dei gemelli a mia madre, che custodisce i suoi album come le reliquie di un santo. Se qualcuno li vuole vedere deve prima chiedere il permesso a lei, che li va a prelevare dal loro nascondiglio segreto e li porta, temporaneamente, in visione. Le foto per lei hanno un enorme valore. Lo dice sempre che non c’è niente di più bello che sfogliare quegli album e tornare con i ricordi indietro nel tempo. Mentre io, che non conosco certi slanci sentimentali, in quelle centinaia di pagine plastificate vedo solo immagini che sarebbe meglio occultare, perché danno un corpo troppo modesto a ricordi che la mia memoria, nel corso degli anni, si è sforzata inutilmente di abbellire. Quelle foto illustrano i membri della famiglia e tutte le loro mutazioni, raccolgono tutte le prove del matrimonio dei miei genitori, dei battesimi, delle comunioni, delle cresime dell’intero parentado, dei miei fratelli e ovviamente di noi due, i gemelli.
Curiosando tra le nostre foto è interessante notare come la bellezza che avevamo da piccoli sia andata progressivamente scomparendo. Prima abbiamo perso le rotondità infantili, poi ci siamo allungati. Emanuele si è smagrito da far paura, mentre io, come per bilanciare questa sua perdita di massa, nella pubertà ho messo su uno strato di ciccia a dir poco inquietante. Diciamo pure che ero grasso. Anzi, ero quello grasso, come ripetevano sempre i miei zii quando ci vedevano, tutti contenti perché così, forse, riuscivano a distinguerci.
E poi in famiglia si chiedono perché non mi stanno simpatici.
Non solo alle elementari sono arrivati per entrambi gli occhiali, ma per un certo periodo, su una lente a testa, abbiamo sfoggiato una toppa adesiva che secondo l’oculista doveva servire a correggere la vista. (Io non ci ho mai creduto.) Ci si può ammirare, in una foto del Natale ’83, mentre fissiamo mezzi orbati un grosso pacco che ci sta davanti. Sembriamo due scemi.
Per un certo periodo abbiamo sfoggiato i capelli a caschetto, un taglio ispirato a quello dell’adorabile bambino più piccolo (come si chiamava?) della Famiglia Bradford, un telefilm che circolava in quegli anni. A vederci adesso, però, ricordiamo più che altro una coppia di abat-jour da comodino.
Ai tempi delle scuole medie, comunque, i capelli li abbiamo tagliati a spazzola, perché li avevano tutti così. E su di me quel taglio marziale riusciva solo a farmi sembrare più grasso.
Ma siccome i nostri supplizi non erano finiti, ci hanno messo anche l’apparecchio per raddrizzare i denti. Emanuele almeno lo aveva mobile, quindi in pratica non lo metteva mai, lo nascondeva nell’armadietto del bagno o se lo infilava in tasca appena possibile, mentre il mio era fisso, letteralmente cementato sullo smalto dei denti, e me lo sono dovuto tenere fino a sedici anni.
Se qualcuno riuscisse a trovare le poche foto che non ho fatto sparire di quel periodo – il più oscuro della mia vita – mi potrebbe vedere mezzo obeso, con un’espressione idiota e due fili d’acciaio che mi saldano la bocca in un sorriso che somiglia a un grido disperato. Un ritratto che dovrebbe far riflettere i (miei) genitori sulla mania di scattare foto ai figli. Eppure mia madre è capace di commuoversi anche davanti a immagini del genere, e nel suo portafogli conserva il ritaglio di una foto – souvenir di qualche matrimonio o evento funebre della famiglia Sommaruga – in cui figuro io ridotto in quel modo.

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