21.3.10

Foto di famiglia_2

La foto è piccola, quadrata, e come tutte quelle della mia infanzia ha i colori troppo carichi, forse per un difetto della pellicola oppure, sospetto io, per colpa di una macchina fotografica scadente – cosa che non mi stupisce, visto che all’epoca in famiglia non giravano certo molti soldi.
Nella foto ci siamo io e Emanuele, il mio gemello, seduti sopra una coperta in mezzo a un prato. Guardandola, Emanuele ha detto che potevamo avere al massimo un anno quando è stata scattata. Io non ne ho idea, non so dare un’età agli adulti, figuriamoci ai bambini. Ma se lui ha ragione l’immagine potrebbe risalire alla primavera del 1975 (noi siamo nati nell’estate del 1974), perché il prato è tutto infiorato di margherite. Il giardino è senza dubbio quello dei miei genitori, in un angolo si vede un pino minuscolo, che col tempo sarebbe cresciuto moltissimo e che è stato tagliato già da vent’anni, perché minacciava di abbattersi sul tetto di casa.
La coperta patchwork stesa sull’erba me la ricordo bene, l’aveva fatta a mano mia madre, che dopo averla usata per i giochi di tutti i suoi figli l’ha arrotolata come un serpente e stesa davanti alla finestra della cucina, dove ancora oggi, credo, serve a fermare gli spifferi d’aria.
Emanuele e io siamo infilati in due tutine di lana bianche e azzurre, anche quelle opera di madre. Entrambi, sui bavaglini, abbiamo un orsetto che cammina su due zampe. A parte qualche dettaglio insignificante, siamo identici. Direi anche che siamo belli, e mia madre – mi sembra di sentirla – aggiungerebbe che sembriamo il ritratto della salute. Il bambino a sinistra è di profilo, ha gli occhi socchiusi e l’aria trasognata di uno che ha appena mangiato. Indica qualcosa con una mano, lontano, nel cielo, come se fosse impegnato in una discussione. (Ma i bambini di un anno parlano?) L’altro, che gli sta vicino come il suo riflesso, lo ignora e fissa l’obiettivo con una faccia scocciata. Secondo Emanuele quello a sinistra sono io. «È impossibile sbagliarsi» dice, «non vedi che ha la testa un po’ a uovo come la tua, i tuoi occhi e la tua espressione?» Forse ha proprio ragione, anche a me sembra di riconoscere qualcosa di lui nel bambino seduto a destra. Ma un attimo dopo i gemelli tornano a confondersi, a somigliarsi come due sconosciuti che se ne fregano dei miei dubbi. E io devo fare uno sforzo per convincermi che uno di quei corpi così piccoli, così lontani, sia stato davvero il mio.

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