20.11.09

Vita da redattore_5

Morgan Braganza, il geniale architetto lusitano che ha progettato la sede-mausoleo della Giacobino Editore (vedi La stagista_1), ha disposto tutte le redazioni del gruppo in enormi open space che occupano due piani interi del palazzone. Questo significa che posso vedere Gladia curva sulle bozze o mentre discute con le sue smorte colleghe di Studia & Labora, a cento metri di distanza, senza dovermi alzare dalla mia scrivania. Ma significa soprattutto che qui dentro la privacy è stata abolita.
Quando ho iniziato a lavorare per la Giacobino scuola c’erano due cose della vita d’ufficio che mi risultavano nuove e particolarmente fastidiose. La prima era il male al fondoschiena che mi prendeva, bruciante, già a metà giornata – dovuto, credo, alla mia scarsa abitudine a stare seduto tante ore di fila. La seconda era il rumore prodotto dalle voci di decine di persone, di mouse cliccanti e di tastiere all’opera, mescolati al ronzio subliminale dei computer, ai cassetti di lamiera che sbattevano, ai fogli delle bozze che venivano sventagliati da una scrivania all’altra, strappati, accartocciati... Un rumore denso, soffocante, che saturava l’aria e in certi momenti riusciva ad azzerare la mia già scarsa capacità di concentrazione.
Senza che ne avessi la minima voglia, potevo ascoltare le conversazioni e le telefonate di tutti, dall’editor che parlava con gli autori o con i redattori, ai redattori che parlavano con – in ordine sparso – impaginatori, correttori di bozze, grafici, revisori, collaboratori occasionali, giù giù fino a un folto sottobosco di fidanzati, coniugi, amanti e parenti senza nome. Per non dire di quei redattori che parlavano da soli perché li aiutava a concentrarsi, o di quelli che se la prendevano con il loro computer perché, dicevano, non funzionava, mentre erano loro che non lo sapevano usare. E per non dire nemmeno della segretaria, che quando (raramente) non era chiusa nel bagno degli uomini a fumare, a truccarsi o a spazzolarsi i capelli, ma si trovava alla sua scrivania, e non dormiva con la testa appoggiata sulla tastiera, come capitava ogni tanto, trascorreva il suo tempo attaccata al telefono a chiacchierare con la madre o a rimbeccarsi a sangue col marito.
Ma dopo anni di contratti a progetto ho finito con l’abituarmi a questo ribollire ininterrotto. E anche il mio sedere si è avvezzato alla sedia, al punto che ormai la trova decisamente comoda.

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