9.4.11

Foto di famiglia_11

Il secondo giorno alla libreria Tau, dopo aver spolverato una per una le statuine del presepe napoletano, ero ancora più determinato a andarmene. Così ho aspettato con impazienza la pausa pranzo per telefonare all’agenzia.
«Ci sono problemi?» ha chiesto la ragazza, e sembrava proprio sorpresa di sentirmi. Forse avvertiva la rogna in arrivo.
Senza tanti giri di parole le ho detto che il lavoro non mi piaceva e che non avevo intenzione di continuare il mio periodo di prova.
«Ma come mai?» ha chiesto dopo qualche secondo di silenzio incredulo «…per caso è successo qualcosa?».
Prima di chiamarla avevo pensato a quale scusa inventarmi, volevo fingere un imprevisto, qualcosa di grave per giustificare la mia scelta di andarmene, e invece ecco che le stavo già dicendo la verità.
«Sinceramente non credevo di dover fare le pulizie nel negozio».
Era stato così semplice. Mi sentivo soddisfatto.
Pensavo in continuazione ai fatti del giorno prima, agli aerei kamikaze, alle torri gemelle che si sbriciolavano, a quei corpi che cadevano nel vuoto, che esplodevano a terra, e la mia piccola questione di lavoro mi sembrava una cosa senza nessuna importanza. Volevo solo risolverla, al più presto.
«Forse sarebbe meglio cercare subito una persona per sostituirmi» avevo suggerito alla ragazza. Ci sarà pur stato qualcuno da ripescare tra quelli esclusi alla prima selezione. E se non c’era potevano fare altri colloqui, no? Che si arrangiassero, insomma. Io li avevo avvisati, più di questo non potevo fare. Ma la ragazza provava comunque a insistere, con consumata gentilezza: «Forse, Daniele, dovresti avere un po’ di pazienza, in fondo oggi è solo il secondo giorno di lavoro ed è normale fare un po’ di gavetta, all’inizio… non devi lasciarti condizionare dalle prime impressioni… sicuramente, in seguito, ti affideranno altri compiti più interessanti... se vuoi posso parlare io con i tuoi responsabili...».
Sapevo che lei aveva ragione, e che di certo dovevo sembrarle un ragazzo immaturo e capriccioso, ma sapevo anche che quel lavoro non faceva per me e che non avrei più cambiato idea. Quindi era meglio per tutti non perdere altro tempo. E poi non era la gavetta a spaventarmi, ma quel negozio, dove al massimo avrei potuto sperare, un giorno, di sostituire per qualche ora la Gibigiana femmina alla cassa.
La ragazza frugava velocemente tra i fogli, forse stava cercando la lista degli altri candidati per quel lavoro, quelli che avevano scartato per scegliere me. Di certo avrebbe fatto un giro di telefonate appena riagganciavo. Intanto provava a farmi cambiare idea, anche se con meno convinzione. Io aspettavo educatamente che finisse la frase che doveva dire, e intanto guardavo, al di là della strada, una vetrina della libreria Tau che incorniciava i due Gibigiana all’opera: stavano intrattenendo una coppia di suore e se la ridevano in modo esagerato, come sempre.
La ragazza avevo finito e io, tanto per evitare il silenzio, avevo aggiunto: «Probabilmente ho sbagliato a rispondere all’annuncio… forse lavorare in un negozio non fa per me…». Parlavo fissando lo spigolo del palazzo di fronte, perfettamente spartito tra un lato assolato e uno immerso in un’ombra notturna. «Ma ho preferito dirvi subito come stavano le cose…».
«Apprezzo molto la tua onesta» diceva lei.
Io ormai non la ascoltavo più. Ripetevo mi dispiace, così, solo per educazione. Ma in realtà non me ne importava niente. Lei mi chiedeva soltanto di aspettare ancora un paio di giorni, prima di decidere definitivamente. E io, per tranquillizzarla, dicevo che comunque avrei concluso quella prima settimana di lavoro e che sarei andato in negozio fino al sabato.
Poi avevo messo giù.

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