27.2.11

Foto di famiglia_10

La sera dell'11 settembre, tornando a casa in treno, mi reggevo a una sbarra con lo sguardo immobile oltre i finestrini bui. Ero in piedi, circondato da gente nelle mie stesse condizioni. Non capivo se fossero ridotti così per la stanchezza del lavoro o per l’attentato alle torri gemelle. Nessuno parlava. Si sentivano solo i suoni meccanici dei freni e delle porte che si aprivano per lasciar defluire gruppi di persone mute. Dovevano essere quasi le nove, ma poteva essere un’ora imprecisata di un giorno, di un anno qualsiasi. Cercavo di dare un senso alle esperienze assurde di quella giornata ma non ci riuscivo. Mi immaginavo su quel treno le sere seguenti, per i sei mesi a venire, e mi mancava il respiro. Dopo mezz’ora di viaggio si era liberato qualche posto. Per fortuna, perché ero in piedi da tutto il giorno e mi facevano male la testa e la schiena. Guardavo gli altri seduti intorno a me, sembravano tutti svuotati, contagiati da qualcosa di sconosciuto. Forse eravamo solo spaventati. Molti avevano già visto le immagini delle torri che si sbriciolavano, mentre io, che avevo potuto sentire solo il racconto confuso fatto alla radio, quelle scene le avrei viste più tardi, a casa, mentre mangiavo qualcosa senza aver fame. Gli aerei si schiantavano a ripetizione contro le torri, esplodevano, i grattacieli crollavano su se stessi, uno dopo l’altro, senza fare rumore, su ogni canale, nelle edizioni straordinarie dei telegiornali che si succedevano a catena fin dal pomeriggio. E intanto provavo a raccontare ai miei genitori la mia prima, surreale giornata in libreria, cercando di mascherare, senza riuscirci, la mia delusione per quel lavoro che sapevo già di voler abbandonare. Mia madre con le lacrime agli occhi, un po’ per quello che vedeva in televisione e un po’ perché si preoccupava per me. Volevano un giovane laureato per cosa? Si chiedeva. Per metterlo a spolverare gli scaffali? Ripensava al giorno in cui mi ero laureato, a come era felice, e invece adesso si sentiva così triste, così delusa. Diceva di lasciarlo perdere subito quel lavoro, che tanto era solo un imbroglio. Io invece volevo provare ancora qualche giorno, fino alla fine della settimana, prima di prendere una decisione.
Poi ci eravamo messi a guardare non so quale programma. Ancora le torri che crollavano. Ovunque gli aerei, il fumo, la gente in lacrime che vagava per le strade della città annientata. Volti sconvolti ricoperti di polvere bianca. Mi ci stavo quasi abituando. E poi, all’improvviso, quelle immagini, le più spaventose, quelle di uomini e donne che per salvarsi (ma lo avevano pensato davvero?) si erano lanciati nel vuoto dai palazzi in fiamme. Corpi che precipitavano in silenzio per centinaia di metri, insieme ai fogli di carta, corpi che ruotavano su se stessi, senza peso, come manichini di plastica. Qualche anno dopo, in un documentario, avrei sentito il rumore di quelle cadute. Esplosioni sorde, disumane. Vedevo le immagini e pensavo a quelle persone che solo qualche ora prima, come tutti i giorni, avevano fatto colazione, si erano vestite, sbarbate o truccate e come sempre avevano salutato i figli, il marito o la moglie prima di uscire di casa. Non potevano immaginare che poco dopo si sarebbero suicidati saltando nel vuoto da un’altezza assurda, dove forse non volano nemmeno gli uccelli.
Più tardi, nel letto, oppresso da una stanchezza che non mi faceva dormire, i ricordi della mia ridicola giornata alla libreria Tau, il pensiero di doverci tornare il giorno dopo e di dover decidere se continuare con quel lavoro o lasciarlo perdere e cercare qualcos’altro, tutti quei pensieri, prima così preoccupanti, adesso sembravano una cosa da niente, senza nessuna importanza. Mi facevano quasi sorridere.

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